Vittime  e  Giustizia

dr. Luigi De Ficchy,  Sost. Procuratore Nazionale Antimafia

Le vittime sono entrate da alcuni decenni in maniera sempre più consapevole sulla scena della giustizia e si impongono sempre più all'attenzione mass - mediatica ma il loro rapporto con la giustizia è ancora assolutamente inadeguato e la loro posizione risulta comunque squilibrata rispetto a quella delle altre parti processuali.

Tale  rapporto si configura in due fondamentali maniere: la prima è quella delle vittime che non vengono riconosciute come tali e che non riescono nemmeno a diventare parti offese in un procedimento penale né hanno la possibilità di chiedere tutela in sede civile. Sono tanti i fenomeni che possono dare luogo a queste situazioni. Mi limiterò a dare una rappresentazione che riguarda solo alcuni fenomeni maggiormente presenti nella realtà attuale e in particolare:

  • • il fenomeno della prostituzione in cui le vittime sono le prostitute;
  • • il fenomeno del lavoro nero in cui le vittime sono prevalentemente immigrati che lavorano clandestinamente senza alcuna protezione né tutela, nei settori agricoli, imprenditoriali e commerciali;
  • • il fenomeno dell'usura che è quasi completamente sconosciuto alla realtà processuale rispetto alle sue concrete dimensioni.

In particolare per il fenomeno della prostituzione, le storie personali delle prostitute rimangono per lo più sconosciute alla giustizia, anche perché la società sembra rifuggire dall'affrontare tale realtà in ragione dei suoi sensi di colpa. Per fronteggiare efficacemente il fenomeno bisogna prendere atto che viene quasi interamente gestito da parte di gruppi criminali stranieri, di cui le prostitute sono le vittime. Queste donne, tra cui molte minorenni, non sono numeri, ma esseri umani che erano pieni di sogni e progetti di vita. I gruppi criminali a volte le hanno strappate ai loro familiari, sequestrandole, altre volte le hanno ingannate, promettendo loro e alle loro famiglie un lavoro da cameriera, badante o baby-sitter in un paese straniero. Poi durante il viaggio o all'arrivo nel paese di destinazione le hanno violentate, hanno tolto loro i documenti e le hanno costrette con la violenza e con la minaccia a prostituirsi. Le giovani donne, private dei loro guadagni, costrette a prostituirsi anche in gravidanza e a volte ad abortire, perdono completamente la loro identità e diventano oggetti nelle mani dei loro sfruttatori. E' necessario pertanto che le istituzioni preposte concentrino le forze nella lotta alle organizzazioni criminali che le sfruttano. La legge prevede un formidabile strumento che consiste nella concessione alle straniere di uno speciale permesso di soggiorno per la durata di sei mesi con possibilità di rinnovo quando siano accertate situazioni di violenza o di sfruttamento nei loro confronti a causa del tentativo di sottrarsi all'associazione criminale.

La collaborazione delle vittime ha già consentito in molti casi di colpire efficacemente i gruppi criminali che controllano il fenomeno, ma bisogna con più decisione proseguire su questa strada. Nella stessa ottica, sarebbe inoltre molto utile una campagna informativa rivolta in particolare ai cittadini consumatori del sesso a pagamento per convincerli che le donne che si prostituiscono sono al 90% vittime della criminalità organizzata. Bisogna far comprendere che le prostitute non hanno scelta e che in tali condizioni il sesso a pagamento diventa moralmente "violenza a pagamento".

E' bene che si sappia, come esempio, che lo sfruttamento della prostituzione nel modello albanese risulta molto cruento perché ha la sua base in un codice orale, il kanun, che viene tramandato di padre in figlio. Si tratta di un complesso di norme di diritto consuetudinario, che risalgono all'incirca al 1.400 a.c. Nel citato codice la donna risulta nella famiglia un essere di nessun valore e deve solo sopportare le violenze degli uomini. Di conseguenza il marito può percuotere la moglie e i figli quando lo ritiene più opportuno e costringerli a qualsiasi atto che a lui piaccia. Tali norme sono osservate da molte famiglie albanesi più delle leggi scritte e ovviamente in tale situazione è normale che la donna possa facilmente divenire oggetto di traffico e quindi motivo di guadagno. L'utente del sesso a pagamento dovrebbe pertanto conoscere anche questi retroscena del suo piacere.

 

Per quanto riguarda le vittime nell'ambito del fenomeno del lavoro nero non bisogna dimenticare la parte più grave della problematica: negli ultimi dieci anni sono morti nel Lazio 181 lavoratori per infortuni avvenuti nel comparto edile mentre il numero degli infortuni mortali nell'anno 2006 si attesta sui 21 casi, numero in lieve diminuzione rispetto all'anno precedente (23 casi). È in aumento invece il numero degli infortuni mortali avvenuti a Roma (16 nel 2006, 13 nel 2005).

L'origine degli infortuni non è da ricercare nella fatalità ma trova la causa principale nella situazione di illegalità diffusa nei cantieri con parallela violazione delle norme sulla sicurezza e igiene del lavoro. Molto spesso gli infortuni costituiscono un aspetto delle condizioni di vita dei lavoratori extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno. Si tratta di un fenomeno gravissimo che si svolge con modalità che avvicinano la condizione del lavoratore a quella di una moderna forma di schiavitù. Una parte di tale realtà è sotto gli occhi di tutti. A Roma la vita da schiavo di un cittadino extracomunitario inizia alle 5 del mattino: ai bordi di una strada come viale Tor di Quinto o via Casilina si  vedono gruppi di lavoratori in attesa dei "caporali" a cui devono necessariamente rivolgersi per inserirsi nel "loro" mercato del lavoro. Spesso l'attività del caporale va dal reclutamento mattutino alla offerta serale del posto letto. Dietro il caporale vi sono spesso gruppi organizzati per la intermediazione abusiva del lavoro, che viene accompagnata da comportamenti intimidatori e violenti.

I clandestini lavorano 10 ore al giorno per 4-5 Euro l'ora senza alcuna forma di previdenza o assicurazione. Quando qualcuno si infortuna l'INAIL potrebbe riconoscere l'infortunio anche se non sono stati pagati  i contributi purché si dimostri che il fatto è avvenuto sul lavoro. Quasi mai si trovano però compagni di lavoro disposti a testimoniare, perché chi denuncia questi fatti non trova più lavoro. Così è successo che un  operaio edile caduto da una impalcatura, rimasto privo di conoscenza, è stato spogliato degli abiti di lavoro, rivestito con i suoi e quindi trasportato fino alla porta di casa. Se poi il datore di lavoro non corrisponde a fine giornata  o a fine settimana la cifra pattuita il clandestino non ha armi per esigere il dovuto né, a causa della sua situazione irregolare, può ricorrere all'autorità per denunciare i soprusi subiti.

Per contrastare tale fenomeno in maniera idonea è necessario che magistratura, forze dell'ordine ed Enti regionali e statali preposti al controllo del rispetto della legalità nei cantieri agiscano nella consapevolezza di questi suoi gravi aspetti e si  muovano in collaborazione tra di loro.

 

Per quanto riguarda il fenomeno dell'usura, il contrasto da parte delle forze dell'ordine e della magistratura nei suoi confronti risulta poco efficace in quanto la scarsa quantità delle denunce impedisce una piena comprensione della sua gravità. Secondo i dati di "SOS Impresa" raccolti nel rapporto 2005, vengono valutati in 150.000 i commercianti vittime di usura sul territorio nazionale. Mettendo a confronto questo dato con il dato Istat di nr. 850 proc. pen. aperti nell'anno 2004, si evince che meno dell'1% degli autori di tale reato vengono denunciati e pertanto la parte non palese e conosciuta del fenomeno si aggirerebbe sul 99%. Lo stesso ragionamento si può ripetere in relazione alle denunce per usura nel Lazio che negli ultimi anni non hanno mai superato le 150.

La scarsa visibilità del fenomeno nel Lazio provoca peraltro una pericolosa idea riduttiva, consistente nel valutare il fenomeno collegato all'azione di piccoli delinquenti di quartiere o al più da piccoli gruppi di bassa capacità delinquenziale. Al contrario l'usura è stata sempre una degli strumenti privilegiati della criminalità romana e ne è rimasta l'attività di maggior rilievo anche quando la criminalità romana, alla fine degli anni '70, ha acquisito un'alta professionalità. Il tipico pregiudicato romano in precedenza, secondo la vecchia tradizione trasteverina, faceva o il borseggiatore o l'usuraio o il cassettaro. Non si trattava ancora di criminalità organizzata, era una criminalità di quartiere e l'usura era una sorta di fenomeno di costume.

La criminalità romana è cresciuta molto proprio con l'usura, specialmente quando sono giunti dalle  regioni meridionali i grandi capitali da riciclare e quando la criminalità, trafficando negli stupefacenti, ha iniziato ad avere redditi importanti. Oggi la domanda di capitali liquidi è aumentata enormemente e si è diffusa a tutte le categorie. L'usura partita da fenomeno che riguardava piccoli criminali è divenuta una realtà criminale che riguarda prevalentemente  la criminalità organizzata, che sola ha i capitali per esaudire tutte le richieste. Ma per comprendere pienamente il fenomeno bisogna sempre rammentare che l'usurato è una vittima dell'usuraio e bisogna liberarsi da quel sentimento inconfessabile che spesso c'è in molti di noi quando parliamo dell'usurato e che ce li fa sentire come complici dell'usuraio.

 

Il secondo tipo di rapporto che la vittima ha con la giustizia si ha quando la vittima è persona offesa in un procedimento penale oppure è parte di un procedimento civile in cui chiede di essere risarcito: in realtà la risposta della giustizia penale e civile oggi è del tutto insoddisfacente tanto che molto spesso  le vittime di soprusi diventano anche vittime della malagiustizia.

 

Per quanto riguarda la risposta penale bisogna  osservare che la maggior parte degli autori dei reati non vengono identificati. A tale proposito si può stimare nell'80% il numero dei reati che rimane con autori ignoti. Nella restante percentuale quando il colpevole viene individuato e condannato spesso non è in grado di fronteggiare le richieste risarcitorie. La discrezionalità del giudice viene poi in molte occasioni usata a danno delle vittime di un reato.

Ad esempio il reato di truffa è spesso valutato come un fatto illecito minore: da una parte i truffatori vengono giudicati con ammirazione per la fantasia che esprimono negli artifici posti in essere, dall'altra le vittime sono disprezzate per l'imprudenza manifestata dall'essere cadute nel raggiro. Tali opinioni sono profondamente sbagliate perché non tengono conto che nella truffa si estrinseca una violenza psicologica per lo più diretta verso anziani o comunque persone che si trovano in situazioni di minorata difesa.

Bisogna pertanto ristabilire una effettiva parità delle parti nel processo: si dovrebbe prevedere ad esempio il parere obbligatorio e vincolante delle vittime di un reato ai fini delle decisioni sul patteggiamento o del rito abbreviato. Sarebbe inoltre opportuno disciplinare la concessione di benefici per il condannato, sia che si tratti di benefici penitenziari sia che di provvedimenti di amnistia e indulto, condizionandoli al pieno soddisfacimento delle ragioni risarcitorie delle vittime.

 

C'è poi da considerare che le condanne spesso rimangono un fatto formale: dall'anno 1946 all'anno 2006 sono state fatte 21 amnistie e 18 indulti. Lo scopo è stato sempre quello di alleggerire il carico delle carceri. L'ultimo provvedimento di indulto non ha tenuto in nessun conto della situazione drammatica che vive il sud Italia a causa del controllo territoriale della criminalità mafiosa.

A tale situazione si deve aggiungere una microcriminalità estesissima in tutta Italia, dovuta anche a problemi di integrazione degli immigrati. Si può dire in realtà che il nostro Stato si sia nel corso degli anni configurato come una "Repubblica fondata sull'amnistia", e cioè sull'impunità dei colpevoli e sulla noncuranza della sofferenza delle vittime, e ciò non solo per la molteplicità dei provvedimenti di clemenza ma anche perché la c.d. pacificazione della Repubblica si fondò il 22 giugno 1946, proprio pochi giorni dopo la sua nascita, sulla nota "Amnistia Togliatti".

Il provvedimento si concretizzò nella liberazione di migliaia di persone: si trattava di Capi dello squadrismo fascista, ministri del regime, presidenti del Tribunale speciale, collaborazionisti, stragisti, delatori, torturatori di partigiani e persecutori di ebrei. Molti erano autentici criminali. Si decise in tal modo la piena impunità della classe dirigente del ventennio e della Repubblica sociale. Ne conseguì un generalizzato colpo di spugna sulle responsabilità dei fascisti con il conseguente mancato ricambio nell'apparato statale - amministrativo.

Il provvedimento si inserì in una complessiva situazione di rimozione delle responsabilità, che vide nel corso degli anni successivi l'insabbiamento di molti processi per crimini di guerra nazifascisti accompagnato dall'impunità concessa agli italiani colpevoli di crimini di guerra in Africa, in Jugoslavia e in altri fronti di guerra.

 

In sintesi l'alea del processo, la lunghezza dei procedimenti, in media otto anni per i processi penali e 10 anni per i processi civili, l'incapienza patrimoniale dei responsabili del reato impediscono, nella maggior parte dei casi, il concreto soddisfacimento delle istanze della parte offesa nell'ambito processuale. Si deve de jure condendo pensare a una strategia diversa di protezione della vittima: bisogna riconoscere un diritto soggettivo pubblico al risarcimento del danno quando non sia possibile l'adempimento dell'obbligazione civile per i danni causati dal reato da parte del responsabile.

Nonostante che la necessità di un tale sistema di protezione emerga dalla decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea del 15 marzo 2001, non è stato mai emanato in Italia un sistema normativo che preveda una riparazione piena delle vittime dei reati. In tale ottica la vittima dovrebbe diventare l'oggetto di un diritto soggettivo pubblico. Nel sistema normativo attuale si è preferito beneficiare le vittime di alcune tipologie di reati (ad esempio i reati di terrorismo e della criminalità organizzata) prendendo a fondamento il loro stato di bisogno.

Eppure la vittima ha diritto ad avere comunque un risarcimento, anche se l'autore del reato rimane ignoto e anche se l'indagato non viene condannato. Sono pertanto necessarie delle linee politiche che mirino all'indennizzo dei danni di qualsiasi natura subiti dalle vittime, mediante la predisposizione di fondi appositamente messi in bilancio. Non è secondario prevedere anche degli interventi che organizzino delle strutture di sostegno psicologico delle persone offese attraverso la creazione di appositi staff professionalmente attrezzati.

 

Ma per ritornare alle considerazioni de jure condito la condanna anche quando venga scontata e sia costituita da una sanzione proporzionale al danno arrecato alla società e alla vittima del reato appaga solo in minima parte le persone offese e non può se non indirettamente alleviare la sofferenza della vittima. Tra l'altro la ricostruzione storica del fatto reato in un processo, che è esasperante per la sua lunghezza e pieno di norme inutilmente garantiste a favore dell'indagato, rischia di non poter dare alla vittima la possibilità di esprimere i propri sentimenti e di ricevere dalla collettività la dovuta solidarietà.

 

Va a questo proposito considerato che la posizione di debolezza della vittima si esprime particolarmente sul piano emotivo nel momento processuale. L'accertamento della verità così come è congegnato nel nostro procedimento risulta un momento drammatico per la parte offesa perché difficilmente si riesce a ricostruire i fatti in una maniera che la vittima senta corrispondente a quanto sofferto in occasione del reato.

Quando poi arriva un'assoluzione, anche se fondata sulla prescrizione o sull'insufficienza di prove, si realizza il momento di massimo sconforto nella vittima, che lo porta a subire nuovamente una nuova esperienza traumatizzante. La vittima si trova poi spesso di fronte l'autore del reato rimesso in libertà. Vengono alla ribalta situazioni che dimostrano che nel nostro Paese le vittime non hanno la dignità dei loro carnefici.

La memoria della sofferenza delle persone si disperde nell'esposizione anonima dei dati statistici. Il sacrificio viene dimenticato e si perde l'immagine delle persone che sono state uccise o comunque sconvolte dalla violenza subita. Talvolta i loro assassini o i loro violentatori si sono trasformati in scrittori, opinionisti o frequentatori di salotti mass - mediatici. A volte diventano anche rappresentanti delle istituzioni. Sembra come se il fatto di essere stati condannati per gravi reati diventi una legittimazione a esprimere pubblicamente pareri su ogni materia. Ritengo che vi sia un dovere morale di conservare la memoria delle vittime di qualsiasi reato.

L'importante è non dimenticare e non vittimizzare ancora una volta chi ha subito un danno, che troppo spesso incide per tutta la vita sulla qualità della sua esistenza. Per fare questo occorrono comportamenti consapevoli da parte di tutti gli operatori giudiziari. Il recupero del senso della giustizia per le vittime passa attraverso un riequilibrio del sistema normativo a favore dei soggetti più deboli.

 

Vi è un'organizzazione denominata "Nessuno tocchi Caino" che opera per la messa al bando in tutto il mondo della pena capitale e della tortura. Ritengo che sarebbe altrettanto giusto fondare un'organizzazione denominata "Nessuno dimentichi Abele".

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