BENVENUTI SUL SITO CED

Simposio presso l'Università cattolica di Bogotà

Dalla cultura individualistica alla cultura relazionale
nella convivenza umana

Testo dell'intervento del dott. Giovanni Caso 

Oggi l’umanità sembra essere costretta dalla necessità di assicurare la felicità delle persone e una convivenza fruttuosa a cercare rapporti e modi nuovi di convivenza che siano in grado di venire incontro alla predetta necessità. Sembra infatti che le regole di convivenza attuali e l’attuale organizzazione sociale, política ed economica non siano adeguate a garantire, da un lato, la dignità e i diritti fondamentali di tutti gli uomini e di tutte le donne e, dall’altro lato, la giustizia nella società. Invero, la difficoltà dei rapporti umani e la crisi globale dell’economia chiamano in causa gli attuali assetti della convivenza umana. Preciso che si considera qui la convivenza sia nella sua dimensione strutturale sia come cultura che determina, ispira e informa le regole e le forme della covivenza stessa. Gli studiosi, infatti, definiscono individualistica la concezione dell’uomo e della società dell’era moderna.

 

Cenni storici

Per la comprensione di questo assunto, mi sembra utile premettere un breve e sintetico esame storico delle forme e delle strutture della convivenza umana nelle diverse epoche e nelle diverse culture, ed esaminare le cause ideali e pratiche che le hanno determinate. Nelle antiche civiltà mesopotamiche, in India e in Cina, i componenti di tali società sono stati in una condizione generale di subordinazione.  Nei regni mesopotamici la sudditanza era rispetto al re, il  quale racchiudeva nella sua persona tutti i poteri. In India uomini e donne erano strettamente inseriti nelle diverse caste con degli stretti doveri che segnavano la propria appartenenza ad una determinata casta. In Cina la subordinazione era di natura gerarchica nei confronti di chi ricopriva un ruolo  sociale superiore (per es. capofamiglia, capo villaggio, fino al re). Anche in Grecia i componenti della polis erano inglobati nella realtà di tradizioni, di leggi, di costumi, da cui non era possibile liberarsi (v. il processo a Socrate).  A Roma, forse per la prima volta nella storia, l'uomo si è affermato come soggetto di diritto dentro la comunità, ma ciò era solo dei cives, cittadini di pieno diritto (praticamente i patres familias) a cui erano soggetti tutti gli altri, sia i componenti della famiglia (moglie e figli) sia gli schiavi.

Chi operò la piena liberazione dell'uomo fu Gesù. Egli affermò che il rapporto di ciascun uomo e donna con Dio è anteriore e superiore al rapporto con qualunque autorità terrena ("Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio", afferma che non tutto appartiene a Cesare;  e: "Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me" afferma che il rapporto con Dio è anteriore a quello di sangue). Tuttavia, Gesù sostanziò  la libertà dell'uomo e della donna con l'esigenza dell'amore del prossimo (il massimo dei comandamenti). Non si può comprendere lo sviluppo successivo della civiltà umana  senza tenere conto di questo fondamentale evento storico, che ha determinato la fondamentale convinzione che l'uomo ha una relazione con Dio e su questa relazione si fondano le altre relazioni umane e la convivenza degli uomini.

           

La nascita dell’individualismo

 

Fatto questo breve excursus storico, intendo ora entrare nel vivo del tema di questo simposio, che è esaminare come nell'era moderna si siano formate forme e strutture della convivenza umana, fondate su una concezione dell'uomo e quindi su una cultura che viene definita individualistica.

La nascita dell’individualismo viene posta all'inizio dell'era moderna in Europa. Il Medioevo era stato caratterizzato da una concezione unitaria dell’uomo e del mondo, basata sul rapporto di Dio con l’uomo come rivelato da Gesù. La società si era strutturata in forme di convivenza originate dalle particolari contingenze storiche[1].

Tra il Trecento e il Quattrocento la società europea entrò in una profonda crisi per un complesso di cause  (calo della produzione agricola dovuta a guerre, pestilenze, carestia), ad affrontare le quali risultarono inadeguate le precedenti strutture sociali (feudali) e forme di convivenza (in gruppi umani chiusi, ancorati al territorio). La via d'uscita fu trovata nella liberazione dell'individuo da tali forme e strutture. L’uomo, inteso come individuo concreto, diviene così il nuovo soggetto della storia. E’qui l’origine della concezione individualistica che caratterizza la modernità[2].

Questo processo storico, attraverso il giusnaturalismo, ha portato al riconoscimento dei diritti dell’uomo con la Rivoluzione americana (1786) e con la Rivoluzione francese (1789). Questi diritti - consacrati nei Codici, a partire dal Codice napoleonico – sono stati principalmente il diritto di libertà e il diritto di proprietà, anzi la proprietà è stata considerata come condizione e garanzia della stessa libertà dell'individuo. Sappiamo che sui predetti diritti soggettivi (soggettivismo giuridico) si sono formate la società borghese e l'economia capitalistica.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche per effetto della trágica esperienza dei totalitarismi, la comunità mondiale ha sentito la necessità di affermare il principio del primato della persona umana sullo Stato e si è pervenuti alla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (1948). Tali diritti, però, a differenza di quelli di natura soggettiva, sono stati ancorati alla dignità della persona umana e quindi riconosciuti universalmente a favore di tutti gli uomini e di tutte le donne a prescindere dalla loro condizione economica, sociale, razziale, ecc. .Oggi si reclama che tutte le forme di convivenza siano basate sul principio della pari dignità di tutti gli esseri umani.

 

            La cisi sociale attuale

 

Il principio della dignità dell’uomo e le conseguenti esigenze di rispetto della identità e della libertà di ogni uomo e donna sono conquiste irrinunciabili della civiltà umana, e ciascun uomo e ciascuna donna tende ad affermarle in tutti i rapporti e forme di convivenza. Pertanto, con questa esigenza rapporti e forme di convivenza debbono ora confrontarsi.

Tuttavia, nell’ultimo cinquantennio nella società occidentale per varie cause storiche si è avuta una accentuazione dell’individualismo. Gli individui, a causa anche della concezione economicistica dominante che punta al profitto, sono stati spinti a ricercare l’affermazione di sè, il successo e il benessere personali, al di fuori e prescindendo dalle relazioni con gli altri. L’interesse individuale prevale sulle esigenze della vita di relazione; anzi, si è smarrito il senso del valore stesso delle relazioni, il perchè di esse.

In effetti, come avvertono gli studiosi (Habermas, ecc.), l’eccesso di individualismo mette a rischio la tenuta dei rapporti umani. Inoltre, va considerata la ricaduta della concezione economicistica sulla coesione e giustizia della società. Infatti - come avverte il nuovo Papa - l'attività economicache cerca il profitto egoista si pone al di fuori dei parametri della giustizia sociale”[3].

                L’insufficienza della cultura individualistica

Il predetto indirizzo dell’economia appare facilitato dalla cultura individualistica, e l’individualismo a sua volta è alimentato dal predetto indirizzo. Va, infatti, anzitutto rilevato che la concenzione economicistica della società tende a creare ceti sociali economicamente privilegiati e fa aumentare drasticamente le disuguaglianze sociali, creando grandi fasce di povertà e di esclusione. In sostanza, si forma una classe economicamente e politicamente dominante, e tutta l’altra parte della popolazione resta in condizioni di dipendenza economica, culturale e politica[4]

In secondo luogo, la stessa attività produttiva di beni e di servizi si indirizza quasi automaticamente a soddisfare le esigenze delle categorie favorite, creando nuovi beni di consumo il cui bisogno è indotto proprio dalla cultura individualistica che tende al benessere personale, all’apparire, ai piaceri, ecc. (vedi pubblicità nella TV).

Inoltre, come si è detto, l’individualismo spezza i rapporti e fa venire meno il senso stesso della vita di relazione, nella quale e dalla quale gli individui possono ricavare le ragioni profonde del vivere e raggiungere una dimensione di felicità non acquisibile isolatamente.

            Verso una dimensione relazionale della convivenza umana

Pertanto, la cultura dell’individualismo sembra non più adeguata ad offrire regole e strutture della convivenza umana e sociale, che da un lato favoriscano la vera felicità delle persone, la realizzazione della loro identità, e dall’altro lato assicurino condizioni di esistenza della società, che siano a vantaggio di tutti i componenti della medesima e dell’intera società. Allora, quali sono le strade da seguire per trovare una nuova dimensione della convivenza umana?

C’è da operare il passaggio dalla concezione indidualistica ad una concezione relazionale della convivenza.

Infatti, come avvertono gli psicologi, l’io è veramente tale solo se riconosce un tu con cui mettersi in relazione, e l’atto di riconoscere e accogliere l’altro attiva, sul piano psicologico, un processo dinamico attraverso il quale ogni uomo e ogni donna può sperimentare il riconoscimento di sè e delle sue stesse potenzialità [5]. Ciò è confermato dall'ultima Enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate: "La creatura umana, in quanto di natura spirituale  si realizza nelle relazioni inter-personali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. L'importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. E' quindi utile al loro sviluppo (delle persone singole e dei popoli) una visione metafisica della relazione tra le persone".  E i sociologi (Beck, Levinas, Simmel, ecc.) a loro volta avvertono: "La vita relazionale è il tessuto connettivo della ocietà, è ciò che la fa esistere".

Come operare concretamente il passaggio dalla cultura individualistica a quella relazionale?

Mi sembra che si può cercare una risposta nella spiritualità dell'unità di Chiara Lubich. Questa spiritualità indica una relazionalità nuova nella convivenza umana.

Chiara stessa ne ha fatto personale esperienza insieme alle sue prime compagne: Essendo in tempo di guerra sempre esposte alla morte, esse leggevano il Vangelo per trarne ispirazione per la loro vita. Ed è così che si è dischiuso al loro cuore e alla loro mente il significato e il valore delle Parole di Gesù. Tra tutte, quelle che riguardano l’amore del prossimo. Mettendole in pratica, innanzitutto verso i più poveri e bisognosi nella città di Trento devastata dalla guerra, hanno sperimentato che nell’amare gli altri si sperimenta l’amore di Dio, che è Amore. Hanno quindi fatto dell’amore – l’amore evangelico - il punto centrale della loro vita. Si riscopriva così la relazione, il rapporto con l’altro.

Questo rivolgersi all’uomo ha dispiegato i suoi effetti in tutte le dimensioni dell’esistenza. Tutte le realtà umane si sono illuminate e hanno trovato la loro ragion d’essere proprio nell’amore all’uomo. Così l’attività educativa e pedagógica, nella quale si guarda alle esigenze dei discenti, a partire da quelli che hanno più difficoltà, affinchè detta attività sia a loro servizio. Così nell’attività sanitaria affinchè la medicina sia per la persona. Così nella comunicazione sociale affinchè serva alla conoscenza da parte dei cittadini dei fatti, delle situazioni e dei problemi. E nelle attività economiche e produttive, affinchè siano orientate e provvedano ai veri bisogni delle persone e della società. Inoltre, nell’attività di amministrazione della giustizia, affinchè possa servire a tutelare i giusti diritti delle persone. E la política, nell’amore all’uomo, può ritrovare il proprio compito per la realizzazione del bene comune, nel quale i bisogni dei singoli e della comunità possono essere soddisfatti.

L’amore all’uomo è veramente in grado di guidare l’azione in ogni ambito della vita sociale. Esso è in grado di trasformare i rapporti e la convivenza.

Si è detto prima che l’individualismo mette a rischio la tenuta dei rapporti inter-personali, ad iniziare dai rapporti di famiglia e via via tutti gli altri rapporti (economici, politici, ecc.) fino ai rapporti tra gli Stati. Anche per questi tipi di rapporti gli psicologi avvertono che la via è quella del riconoscimento e dell’accoglienza “dell’altro”, che deve essere praticata reciprocamente dai soggetti dei rapporti. Infatti, soltanto il riconoscimento e l’accoglienza reciproci possono fare assumere alla convivenza la dimensione della comunione[6].

Ma, come praticare questo riconoscimento e questa accoglienza reciproci nei rapporti inter-personali? Anche qui una risposta possiamo trovarla nella spiritualità dell’unità di Chiara Lubich.

Proseguendo nella pratica dell’amore all’altro, Chiara e le sue compagne  fecero una nuova esperienza della relazione. L’amore all’altro induce l’altro ad un analogo comportamento, e nasce così un rapporto di amore vicendevole.

Chiara racconta: “Ci siamo chiesto: ci sarà una volontà di Dio a cui Gesù tiene particolarmente? Vorremmo vivere proprio quella prima di morire. E nel Vangelo ecco la risposta: questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati (Gv. 15, 12-13).  Impressionate dalla bellezza di questa Parola decidiamo di viverla innanzitutto fra noi, dichiarandoci l'amore reciproco, pronte a morire l'una per l'altra. Suggelliamo questa dichiarazione con un patto solenne e, guardandoci in faccia, diciamo: io sono pronta a morire per te, io per te .... tutte per ciascuna, perchè questa è la misura dell'amore di Gesù.  Da quel momento la nostra vita cambia. Avvertiamo in noi qualcosa di nuovo, una forza, una luce nel capire le cose, una volontà mai sperimentata prima. Cos'era successo? Con quel patto avevamo messo in moto la carità vicendevole. E l'amore ci aveva unito come Gesù ha desiderato quando ha detto: dove due o tre sono riuniti nel mio Nome - i Padri dicono nel mio amore - io sono in mezzo a loro (Mt. 18,20). Egli dunque si era posto in mezzo a noi. E quanto di nuovo, di bello, di luminoso, avvertivamo nel nostro cuore, era effetto della sua presenza".

Dunque, la reciprocità vista dagli psicologi come condizione di rapporti umani positivi è aiutata dalla pratica del comandamento dell’amore reciproco. Certamente ciò è richiesto esplicitamente a quanti hanno la fede cristiana, ed è sostenuto dalla promessa di Gesù. Tuttavia, essendo l’amore un valore universale, esso può essere assunto e messo in pratica anche da quanti non hanno una fede religiosa

Infine la relazione di amore reciproco può essere vissuta anche nei rapporti tra i popoli e realizzare così la fraternità universale e la pace.

 

                                                                                              Giovanni Caso

 

 



[1] Cf. tra gli innumerevoli scritti sul Medioevo Michel Lemonnier: Storia della Chiesa 2002
[2] Cf. Paolo Grossi: L’Europa del diritto, pag. 67 e segg. - Bari 2011
[3] Papa Francesco: Osservatore Romano 2-3 maggio 2013
[4] Cf. G. Cucci: “Capitalismo e globalizzazione: aspetti psicologici”  e  “Persuasione occulta e ricerca di senso”,  in  Civiltà Cattolica 2013
[5] Chadwick, La terapia cognitiva;  W.Glasser, Terapia della realtà.
[6] Cf. Chadwick e Glasser: opere citate

 

Share this post

Submit to DeliciousSubmit to DiggSubmit to FacebookSubmit to Google PlusSubmit to StumbleuponSubmit to TechnoratiSubmit to TwitterSubmit to LinkedIn
facebook_page_plugin

Questo sito utilizza cookie tecnici, anche di terze parti, per consentire l’esplorazione sicura ed efficiente del sito. Chiudendo questo banner, o continuando la navigazione, accetti le nostre modalità per l’uso dei cookie. Nella pagina dell’informativa estesa sono indicate le modalità per negare l’installazione di qualunque cookie.