Mariapoli Ginetta, 25 gennaio 2008
Congresso nazionale Brasile
Dr Giovanni Caso, Presidente emerito Corte di Cassazione
Il titolo che è stato dato a questa mia conversazione contiene in sé termini sui quali si articolerà il mio discorso, e cioè: giustizia – fraternità – diritto.
Di questi tre termini, mentre il terzo (diritto) ha una funzione strumentale (il diritto è un mezzo, non un fine), giustizia e fraternità indicano un “modo di agire” o, anche, il “risultato” di un modo di agire, di operare. In questo quadro, il diritto ha una funzione strumentale, in quanto può orientare l’azione verso il raggiungimento del predetto risultato, che è la costruzione della giustizia nella società per la realizzazione della fraternità.
A questo punto occorre fare una riflessione sul diritto, sulla sua funzione di aiutare a costruire i rapporti sociali. Il diritto ha propriamente questa funzione?
Ci soccorre in proposito la riflessione filosofica sul diritto. E’ noto che sono state date tante definizioni del diritto a seconda delle diverse correnti filosofiche. Ai fini del mio discorso – cioè la funzione del diritto nella costruzione dei rapporti sociali e precisamente per costruire la giustizia nella società - prendo in considerazione il pensiero filosofico di Hegel, senza comunque accettare la sua visione immanentistica del diritto e dello Stato. Ebbene, Hegel afferma che il diritto ha una funzione socializzatrice, ossia contribuisce a costruire i rapporti sociali ai vari livelli (la famiglia, le comunità intermedie, lo stato: da notare che Hegel si ferma allo Stato proprio per la sua visione filosofica, secondo cui lo Stato è l’ente supremo che in sé riassume i singoli individui, le famiglie, la società civile). Tuttavia, a noi interessa rilevare che, secondo questo filosofo, il diritto svolge una funzione nel processo di edificazione della società.
Nella Sacra Scrittura (libro del Deuteronomio ) è riportata questa frase di Mosè, il quale, rievocando l’esperienza vissuta dal popolo d’Israele nel deserto e l’evento dell’Alleanza tra Dio e il popolo, fondata sulla legge ricevuta da Dio, esclama: “Qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione… ?” (Deut 4,8).
Riflettendo su questa frase, risulta evidente che essa pone uno stretto rapporto tra la grandezza di una nazione e il fatto che essa abbia leggi e norme giuste, a significare che le leggi e le norme giuste, ossia un diritto giusto, possono concorrere a far giusta, e quindi grande, la società. Leggi e norme giuste possono aiutare a costruire la giustizia nella società.
Ecco, quindi, che il titolo di questa conferenza riceve una ulteriore spiegazione. Costruire la giustizia nella società è anche frutto di una legislazione giusta, di un diritto giusto.
Ma che cosa è la giustizia?
Parto da una considerazione di senso comune. L’idea del “giusto” è innata nell’uomo. Ciascun uomo percepisce di soffrire una ingiustizia se viene offeso ingiustamente, ossia se viene raggiunto da un’azione che lo offende nella sua persona e nei suoi diritti.
Ugualmente noi percepiamo che una società è ingiusta se una parte della stessa vive in condizioni sub-umane per grandi disuguaglianze sociali; se manca la giustizia a favore dei più deboli; se il bene comune non viene perseguito per potere favorire, invece, gli interessi privati di individui e di gruppi.
Dunque, in che cosa consiste la giustizia? Sappiamo che della giustizia si sono date molte definizioni. Scelgo di considerare qui, per la sua rilevanza in ordine al rapporto tra giustizia, fraternità e diritto, che è l’oggetto di questo discorso, una splendida definizione della giustizia data da sant’Agostino. Questi definisce la giustizia “Quella disposizione dell’animo che, mentre custodisce il bene comune, accorda a ciascun uomo la dignità che gli è propria”, dove si pongono in stretta relazione tra loro il bene comune e la tutela della dignità di persona di ciascun uomo e donna. Si tratta della giustizia come virtù, che si distingue dalla giustizia che regola lo scambio di beni tra i soggetti (giustizia commutativa) e dalla giustizia distributiva che si attua mediante la utilizzazione delle risorse pubbliche secondo equità (giustizia sociale).
Secondo la definizione della giustizia che ho scelto, la quale non esclude le altre forme di giustizia, la finalità della giustizia è duplice: essa mira nello stesso tempo ad assicurare il bene comune e a tutelare la dignità di persona di ogni uomo e donna. Questi due momenti non sono separati. La giustizia che assicura il bene della collettività, aiuta con ciò stesso ciascun individuo a realizzare il proprio bene nella società resa più giusta.
La giustizia, dunque, deve tradursi sia nei comportamenti personali con i quali accordiamo a ciascun uomo la sua dignità, sia nelle leggi e norme che presiedono e regolano l’insieme dei rapporti intersoggettivi e le strutture della società. In questo secondo aspetto la giustizia deve ispirare sia il diritto pubblico che il diritto privato.
Nel diritto pubblico le leggi devono tendere alla salvaguardia del bene comune. Gli interessi privati di singoli individui e di gruppi non devono prevalere sul bene comune, ossia non devono essere perseguiti sottraendo risorse alla comunità e in danno della stessa.
Errata, al riguardo, si appalesa la concezione secondo cui il bene comune è la somma degli interessi individuali. Bene comune è l’insieme delle condizioni di vita del corpo sociale, che, assicurando il bene di tutta la collettività, consentono il bene delle singole persone (per esempio: la qualità della vita, la tutela dell’ambiente naturale, l’accesso al lavoro, l’accesso alla cultura, l’accesso alla partecipazione politica, ecc.).
La realizzazione della giustizia nella società avviene, dunque, nel piano pubblico predisponendo le condizioni per cui ciascun cittadino possa realizzarsi come persona, consentendogli l’accesso al lavoro, all’istruzione, all’informazione, alla partecipazione politica. La giustizia, nel piano pubblico, è anche consentire a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti e doveri politici, nella quale cosa consiste la democrazia.
A chi spetta conseguire i predetti risultati? Certamente agli organi politici eletti attraverso un corretto sistema elettorale. Ma, tutta la collettività è chiamata a farsi carico della loro attuazione, nel senso di sentire come propria l’anzidetta esigenza e avere interesse alla sua realizzazione.
E’ questo il senso e il fine della partecipazione politica, che sempre più tende a connotare la democrazia. E, in questo quadro, va studiato il rapporto tra la comunità (i cittadini) e la Pubblica Amministrazione, affinché sia garantito il primato della persona e della comunità rispetto all’esercizio dell’autorità pubblica .
Infine, costruire la giustizia nella società è avere una amministrazione della giustizia (magistratura) giusta ed efficiente. La magistratura deve assicurare l’osservanza delle leggi e norme poste a tutela del bene comune e a tutela delle persone e dei loro diritti. Perciò l’amministrazione della giustizia deve contrastare corruzione, violenza e criminalità, perché sono contro il bene dei singoli cittadini e della comunità.
Nel campo del diritto privato la normativa giuridica deve mirare ad assicurare la giustizia nei rapporti intersoggettivi.
Vastissimo è il campo dei rapporti intersoggettivi, coperto dal diritto privato: si va dal diritto di famiglia al diritto d’impresa passando per il campo di tutti i rapporti obbligatori, di proprietà, ecc. E’ possibile vivere la fraternità in tutti questi rapporti?
Non affronto specificamente e singolarmente i predetti ambiti del diritto privato, dato il carattere generale del presente studio che intende chiarire i concetti di giustizia e di fraternità e la loro applicazione nei rapporti giuridici di diverso tipo. L’oggetto di questo studio, infatti, è la ricerca più approfondita dei modi dei comportamenti e delle relazioni umane che garantiscano veramente giustizia e fraternità nello svolgimento dei rapporti giuridici, onde prevenire le ingiustizie. Sappiamo infatti che, quando è stata violata la giustizia, l’intervento dell’amministrazione giudiziaria (magistratura) può soltanto, in qualche modo e in qualche misura, riparare i danni subiti dalle persone a causa dell’ingiustizia. Invece aiutare le persone a tenere comportamenti giusti previene la commissione delle ingiustizie.
Tutto ciò è evidente; ma, bisogna ricercare i modi concreti di comportarsi e di agire gli uni verso gli altri nei rapporti umani e sociali.
E’ un fatto che ogni essere umano, uomo e donna, chiede di essere salvaguardato nella sua dignità di persona e desidera sviluppare ed esprimere la propria personalità all’interno dei rapporti della vita sociale di cui partecipa, che sono di diversa natura (famigliare, economica, di lavoro, professionale, politica, ecc.).
D’altronde, non si possono comprendere le istanze sociali e culturali del tempo odierno se non si accetta l’anzidetta aspirazione di ciascun uomo e donna. Tuttavia, è constatazione comune che mai come oggi i rapporti umani e sociali ed i fondamenti della convivenza umana incontrano una grande difficoltà.
Viviamo un momento storico in cui i singoli individui desiderano ardentemente che sia assicurato l’esercizio della loro libertà e che possano sviluppare la propria personalità. Del resto proprio in ciò consistono i “diritti umani” oggi solennemente proclamati. Tuttavia la concreta realizzazione di tali diritti, come è noto, trova molta difficoltà. Il fatto è che lo Stato e gli altri Enti o Agenzie, come abbiamo visto prima, possono e debbono corrispondere sul piano pubblico alla predetta esigenza. Ma, il concreto rispetto delle persone, della loro dignità, dei loro diritti all’interno dei rapporti, può essere assicurato effettivamente dal corrispondente atteggiamento e comportamento degli altri soggetti.
Occorre, dunque, che le persone nei loro rapporti si comportino reciprocamente in modo che sia rispettata la loro dignità, siano attuati i loro diritti e, soprattutto, che attraverso i rapporti medesimi possa realizzarsi la loro personalità. Mi sembra, in sintesi, che questo debba essere lo spirito e lo scopo della normativa giuridica dei rapporti di diritto privato: aiutare le persone a tenere nello svolgimento dei rapporti l’anzidetto atteggiamento. Infatti, come ha osservato Giovanni Paolo II, “i diritti dell’uomo, più che norme giuridiche, sono innanzi tutto dei valori. Questi valori devono essere custoditi e coltivati nella società, altrimenti rischiano di scomparire anche dai testi di legge. Anche la dignità di persona deve essere tutelata nei costumi, prima di esserlo nel diritto” .
Il diritto è certamente chiamato a fornire leggi e norme che orientino i comportamenti delle persone ai suddetti fini. Questo è il compito precipuo del diritto.
Ma, bisogna meglio precisare il predetto modo di comportarsi dei soggetti.
A me sembra che, a questo punto, può entrare in gioco il terzo fattore che è nel titolo di questa conversazione “la fraternità”. E dobbiamo domandarci: come va intesa la fraternità? Abbiamo già visto come va intesa la giustizia nel piano pubblico e in quello privato. Ora, dobbiamo considerare la fraternità e il suo rapporto con la giustizia. .
Possiamo partire dalla definizione dell’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Esso recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Anche se la D.U. non ha natura giuridica in senso stretto, tuttavia il principio affermato nell’art. 1 è frutto di una lunghissima e, a volte, tragica esperienza storica e di una elaborazione culturale, per cui rappresenta qualcosa da ritenersi definitivamente acquisito alla civiltà umana.
Esaminando l’anzidetta definizione, notiamo che la “libertà” e “la uguaglianza in dignità e diritti” sono attributi, qualità dell’essere-uomo: ineriscono alla persona umana. Libertà ed uguaglianza pertanto attengono all’essere della persona. Invece, lo “spirito di fratellanza” attiene all’agire degli uomini: “Tutti gli esseri umani….. devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Lo “spirito di fratellanza”, pertanto, qualifica l’agire della persona.
Mi sembra che dobbiamo partire da questo concetto di fratellanza (o fraternità), e vedere quale è il rapporto tra “l’agire in spirito di fratellanza” e la giustizia.
Ci soccorre la definizione di giustizia che abbiamo prima considerato. Secondo questa definizione la giustizia è “la disposizione dell’animo che….. riconosce a ciascun uomo e ciascuna donna la dignità che gli è propria”. Ora, questo “riconoscere”, “tributare”, a ciascun essere umano la dignità che gli è propria è certamente già un “agire in spirito di fratellanza” verso l’altro.
Ma, occorre una spiegazione più penetrante del modo di “agire in spirito di fratellanza”.
Nell’espressione “agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” c’è già il concetto che tale modo di agire può avvenire soltanto dentro i rapporti che ciascun uomo ha con gli altri. La relazione intersoggettiva, quindi, assume un ruolo decisivo: essa è il luogo dove si può agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Dunque “l’agire in spirito di fratellanza gli uni verso gli altri” esprime un modo di vivere le relazioni.
Come si estrinseca questo modo?
La cultura moderna, per rispondere al desiderio di indipendenza e di autorealizzazione degli uomini e delle donne del nostro tempo, ha portato al limite massimo la libertà degli individui, lasciando che essi attraverso l’esercizio di questa libertà raggiungano da se stessi la propria realizzazione. E’ evidente che tutti i rapporti umani e sociali risentono di questa impostazione individualistica. Di fatto, il fallimento della vita di relazione trascina con sé anche le persone e la stessa società. Il problema allora è trovare un modo delle relazioni tra le persone, che soddisfi la loro esigenza di rispetto e di realizzazione delle proprie identità e, nello stesso tempo, assicuri la stabilità dei rapporti, anzi faccia sì che i rapporti diventino uno strumento perché le individualità si realizzino. Una meta, come si vede, molto alta e ambiziosa.
Vediamo quale può essere questo modo.
Dobbiamo guardare all’uomo come persona. La persona umana è relazione con l’altro da sé. Allora dobbiamo chiederci: qual è il modo in cui ogni uomo e donna devono porsi in relazione con gli altri? Le più recenti acquisizioni delle scienze umane (psicologia, pedagogia, ecc.) ci dicono: 1) che la persona è veramente tale se si pone in relazione con un “tu”; 2) che il mettersi in relazione con l’altro attiva un processo dinamico attraverso il quale ogni uomo può sperimentare il riconoscimento di sé e delle sue potenzialità. Ma, come mettersi in relazione affinché ciò avvenga? e, come risolvere il conflitto che può instaurarsi tra il riconoscimento di sé e le esigenze della relazione con l’altro?
Molti psicologi ritengono che la via è riconoscere e accogliere l’altro, ma tale via deve essere praticata reciprocamente. Occorre, cioè, che il rapporto non sia solo unidirezionale, ma sia basato sulla reciprocità.
Anche in psicologia, quindi, si delinea oggi una dimensione prima non considerata: la relazione di reciprocità. Essa sembra alla base dei più importanti processi di integrazione e di evoluzione della mente umana che matura la propria organizzazione proprio attraverso l’interazione reciproca con gli altri. Il riconoscimento reciproco è considerato uno dei processi psicologici più importanti per l’elaborazione e lo sviluppo del “sé”.
Inoltre, il riconoscimento e l’accoglienza reciproci possono far giungere alla comunione e far esprimere autenticamente ciascuno dei partecipanti. Tradotti nella vita giuridica, essi possono assicurare il pieno rispetto delle persone e la stabilità dei rapporti.
Se, dunque, le conclusioni della scienza psicologica stabiliscono che la dimensione della reciprocità va vissuta nell’anzidetto modo, mi sembra non azzardato né arbitrario fare riferimento, per poterla realizzare, al comandamento evangelico dell’amore vicendevole in quanto esso si cala proprio nella dimensione della reciprocità e può illuminarla.
Il Cristianesimo ha potuto affermarsi ad un certo momento della storia perché gli uomini erano in grado di recepire e vivere il messaggio dell’amore, annunciato da Gesù, nel duplice versante: da Dio verso l’uomo (e ciò ha portato l’umanità a fare la nuova conoscenza di Dio, di Dio Amore: è stato Gesù a rivelare l’amore di Dio per gli uomini), e dall’uomo verso Dio stesso e verso gli altri uomini (e ciò ha portato gli uomini a fare una nuova esperienza della vita di relazione). La caritas cristiana ha impregnato la civiltà umana per duemila anni, anche se nella pratica ha visto continue inosservanze e palesi contraddizioni. Ma l’idea è entrata. Ciò che non è stato in effetti sperimentato è l’amore reciproco tra gli uomini secondo la formulazione del “comandamento nuovo” di Gesù: “Questo è il mio comando: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv. 13,34).
Nell’adempimento del predetto comando è centrata la spiritualità di comunione del Movimento dei focolari. Storicamente, a partire dal 1943, nella spiritualità cristiana si è affacciato questo nuovo “carisma”, che è una nuova visione e prassi di vita – sostanzialmente una visione e una prassi dei rapporti umani – , fondate sul Vangelo.
Scrive la fondatrice del predetto Movimento, Chiara Lubich: “Quando il Verbo di Dio si è fatto uomo, si è adattato al modo di vivere del mondo, e fu bambino, figlio esemplare e lavoratore, ma vi ha portato il modo di vivere della sua patria celeste; e ha voluto che uomini e cose si ricomponessero in un ordine nuovo, secondo la legge del Cielo: l’amore reciproco come si vive nella Santissima Trinità”.
Dunque, l’amore reciproco può fondare una visione e una prassi nuova dei rapporti umani.
Questa conclusione va bene per il credente, perché fondata sul messaggio evangelico, ma può essere accettata anche da chi non ha un presupposto religioso, perché essa, come ho cercato di dimostrare, consente di far esprimere e realizzare le potenzialità di ciascun essere umano e assicura la vita di relazione.
Si tratta di mettere in pratica, di sperimentare, l’amore reciproco nei rapporti. E’ un fatto di comportamento, di stile di vita, di consuetudine, da instaurare; esso è nelle possibilità dell’uomo. E’ nota la frase di E. Fromm: “La nostra civiltà molto raramente cerca d’imparare l’arte di amare e, nonostante la disperata ricerca di amore, tutto il resto è considerato più importante: successo, prestigio, denaro, potere. Quasi ogni nostra energia è usata per raggiungere questi scopi e quasi nessuna per conoscere l’arte di amare”. Ma, ciò è nelle possibilità umane.
Sappiamo che il diritto, l’esperienza giuridica dell’umanità, incrociano di epoca in epoca le esigenze legate al vivere sociale dell’uomo; ed esprimono e, nello stesso tempo, cercano di venire incontro a queste esigenze nella regolamentazione giuridica dei rapporti.
Poiché un modo nuovo di vivere i rapporti, basato sull’amore reciproco, è possibile e già trova applicazione nella vita di milioni di uomini e di comunità intere, non è, dunque, né fuori della storia né scientificamente arbitrario farne applicazione nella disciplina giuridica dei rapporti.
A questo punto possiamo rileggere il brano centrale del messaggio di Chiara Lubich al Congresso internazionale di Comunione e Diritto del Novembre 2005.
“….. Il pensiero filosofico ha sempre affermato che l’uomo è un “essere sociale”; egli vive insieme con gli altri, di cui ha bisogno: E’ intuibile che il modo in cui gli individui si comportano gli uni verso gli altri non è indifferente per loro stessi e per la vita di relazioni.
Ogni essere umano sente il bisogno di essere amato e di riversare sugli altri l’amore ricevuto. D’altronde, sono l’amore ricevuto e l’amore dato che consentono alle persone di realizzarsi e nello stesso tempo di realizzare la comunione tra loro. In questo senso può essere intesa e praticata la fraternità fra gli uomini.
Per il carisma dell’unità che Dio ci ha dato, abbiamo sempre visto tutta la creazione, nella sua meravigliosa immensità, come UNA, uscita dal cuore di un Dio Amore, e perciò tutta informata dalla sua impronta. Abbiamo visto in certo modo – credo – Dio sotto tutte le cose, Dio che lega tutte le cose in un rapporto d’amore. E se così è per tutta la creazione, lo è anche per ogni uomo e donna, per l’umanità fiore del creato. Di conseguenza abbiamo sentito che ognuno è stato creato in dono a chi gli sta vicino e chi gli sta vicino è stato creato da Dio in dono per lui.
La fraternità universale dunque è iscritta, per così dire, nel DNA di ogni uomo, ne costituisce la vocazione ultima e corrisponde al disegno di Dio di realizzazione piena dell’uomo e dell’umanità.
E, quale il modo di vivere questa fraternità, rendendola effettiva nel quotidiano?
Abbiamo compreso che questo modo è l’amore reciproco, vissuto sul modello della vita della Santissima Trinità, dove le Persone si annullano per amore l’una nell’altra, per ritrovarsi, in un crescendo continuo di Vita – se così possiamo dire in termini umani – sempre più autenticamente persone e sempre più profondamente comunione, unità.
Noi, uomini e donne, siamo chiamati ad imitare questo altissimo modello in tutti i rapporti, ad ogni livello della vita sociale.
Il diritto, fin dal suo nascere, è stato visto come regola della vita sociale. Mi piacerebbe vedere questa funzione regolatrice innervata dal comandamento nuovo dell’amore reciproco, così nella funzione più propriamente normativa come nella pratica quotidiana di tutte le relazioni giuridiche, per la realizzazione della fraternità.
Affermava Giovanni Paolo II, rivolgendosi ad un gruppo di giuristi:
“L’instaurare la fraternità universale non può certo essere il risultato dei soli sforzi dei giuristi; tuttavia il contributo di questi ultimi alla realizzazione di tale compito è specifico e indispensabile. Fa parte della loro responsabilità e della loro missione”
Auspico che questo vostro Congresso sia stimolo ad un impegno rinnovato nel lavorare per la realizzazione della fraternità universale, cominciando dai rapporti nei quali siete protagonisti per influire poi su ogni relazione, dalla famiglia, alla città, alla nazione, al mondo intero”.