Lettera aperta ai partecipanti al Seminario
su "Efficienza ed etica della giustizia"
Ciro Riviezzo - Magistrato
Membro del Consiglio Superiore della Magistratura italiana
Caro Giovanni,
come sai impegni familiari non derogabili mi impediscono di essere tra Voi come vorrei. Vi giunga comunque il senso della mia partecipazione e del mio apprezzamento per il Vostro impegno e l’attenzione verso l’universo della giustizia.
I temi del Convegno sono molteplici e vasti, anche se accomunati da una unica matrice culturale: l’amore verso l’altro.
Mi pare di poter individuare almeno tre livelli di riflessione possibile: le riforme per migliorare l’efficienza della giustizia; i comportamenti extra-processuali; i comportamenti processuali.
Il primo tema è quello che in questo momento particolare della mia vita professionale mi è più congeniale, in quanto, come sai, sono impegnato nell’autogoverno della magistratura. Da questo osservatorio privilegiato vedo con chiarezza che il livello di efficienza della giustizia nel nostro Paese è ormai al minimo possibile, anche se qua e là segnali confortanti aiutano a tenere viva la speranza. La irragionevole durata dei processi, penali e civili, insulta non solo il diritto, ma l’uomo. L’innocente, che si vede sottoposto alla gogna del processo penale per un tempo indefinito, prima di vedere acclarare la sua estraneità al reato. Il colpevole, che subisce la doppia pena della sanzione penale e della durata del processo, che è esso stesso una pena ed oltretutto ingiusta. La vittima del reato, che attende per anni che giustizia sia fatta, e alla fine, nella massima parte dei casi, vede frustrata ogni aspettativa da una prescrizione o da un condono. E, comunque, assomma alla mortificazione dell’ingiustizia subita il mancato risarcimento, morale e materiale, dei propri diritti lesi e, non di rado, il retrogusto amaro di una sanzione che giunge a distanza di molti anni dal fatto e che colpisce una persona ormai diversa da quella che ha commesso il reato. Quante volte, nella mia esperienza di giudice, ho dovuto constatare che la condanna non serviva a sanare la ferita, sociale ed umana, aperta dal reato, ma a crearne un’altra in un tessuto ormai recuperato dalla vita e semmai dal pentimento ! Una condanna che, invece, se fosse giunta tempestiva, avrebbe costituito insieme riparazione del torto per la vittima e espiazione della colpa, immediata e liberatoria, per il reo. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il processo civile, dove molto spesso sono in ballo non tanto questioni patrimoniali e commerciali quanto diritti personalissimi. Ciò è evidente se si pensa a tutto il settore del diritto di famiglia e alla tutela degli incapaci. Ma anche nell’ambito più propriamente economico, la lunghezza del processo porta alla sostanziale negazione dei diritti, con implicazioni sociali spesso drammatiche. In una frase, l’inefficienza della giustizia giova ai forti, a chi già detiene il potere di fatto nella società (i potenti non hanno bisogno della giustizia, sanno farsela da soli, col denaro, con la prepotenza, con le armi), e percuote ancora di più i deboli della vita, gli ultimi. Essi non hanno altra tutela che quella della legge, e se viene loro negata, non hanno speranza alcuna. Ecco che i temi dell’efficienza della giustizia e dell’etica si legano indissolubilmente in un intreccio inestricabile.
Due le strade da intraprendere con determinazione: da una parte l’organizzazione degli uffici, per recuperare efficienza al sistema. Qui c’è bisogno di maggiori ed adeguate risorse. Ma anche nella situazione data è possibile operare concretamente, copiando le best pratics pure esistenti nel nostro Paese e che hanno dato risultati notevoli, adottando protocolli positivi concordati tra magistrati ed avvocati, e via discorrendo. Per la parte che riguarda l’autogoverno, in questo periodo stiamo facendo un enorme sforzo di adeguamento del sistema ad una riforma ordinamentale che pure è diversa da quella che avremmo ritenuto utile, ma della quale stiamo cercando di far funzionare al meglio le parti positive. Così, approfittando della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, stiamo cercando di superare una logica puramente gerontocratica, nominando dirigenti più attrezzati alle sfide del futuro. Stiamo operando sui programmi di organizzazione degli uffici giudiziari (le cd. tabelle), stiamo cercando di rendere più agile e funzionale la mobilità orizzontale dei magistrati, stiamo elaborando nuovi sistemi di valutazione della professionalità che siano effettivi, rendano merito ai migliori e scovino le sacche di negligenza e neghittosità, al fine ultimo di utilizzare al meglio le risorse umane a disposizione. Un lavoro improbo, che spesso si scontra con ostacoli interni alla corporazione. E vedo profilarsi all’orizzonte una difficoltà ulteriore. Gran parte delle nuove generazioni di magistrati sembra ripiegata in una concezione burocratica della funzione, rivolta verso i propri problemi di lavoro (mobilità, problema economico, carichi di lavoro) piuttosto che essere impegnata in una riflessione compiuta sul ruolo del magistrato, giudice e pubblico ministero, nella società globalizzata, sui nuovi diritti, sui problemi posti dalla bioetica, e via dicendo. Anche su questo piano, per contrastare questa deriva, tanto simile a quelle che intravediamo in altri spicchi della società, l’impegno consapevole del magistrato nell’associazionismo giudiziario può essere determinante.
Sotto altro profilo, sono necessarie riforme processuali mirate che, allontanando la tentazione della “epocalità”, si accontentino di introdurre meccanismi di semplificazione delle procedure e di contrastare l’elusione delle norme a fini dilatori. Sarebbe troppo lungo in questa sede anche solo tratteggiare soluzioni possibili.
Mi rendo conto che la passione verso questi temi mi tradisce e rischiano di diventare considerazioni logorroiche quelli che volevano essere brevi spunti di riflessione. Rapidamente, quindi, un accenno agli altri temi sopra delineati.
E' possibile vivere una esperienza diversa anche nei comportamenti extraprocessuali, ma che hanno influenza nel processo. L’impegno volontario nel settore della mediazione (in primis nella mediazione familiare) al fine di prevenire i conflitti che potrebbero sfociare in liti giudiziarie, serve ad aiutare le persone a risolvere le questioni senza l’impatto, spesso devastante e sempre problematico, dell’intervento giudiziario. Nel processo, non bisogna mai dimenticare che dietro ad ogni fascicolo c’è una persona umana, col suo dramma e con la sua personalità. Affrontare ogni causa con l’animo disposto ad ascoltare, prima di decidere se e come difendere o prima di giudicare, è un metodo di approccio che serve a rendere meglio il servizio che si è chiamati a fornire. “Perdere” del tempo nel tentativo di conciliare le parti, piuttosto che passare sbrigativamente alla fase della decisione, significa spesso risolvere alla radice il problema umano, prima ancora che quello giuridico. E se la drammaticità della situazione è del tutto evidente nel processo penale, può sottovalutare l’impatto umano e sociale della crisi della giustizia civile solo chi non ha guardato negli occhi il dramma di un fallimento, di una esecuzione immobiliare che porta via i sacrifici di una vita, della perdita del piccolo capitale accumulato negli anni per la vecchiaia a causa di un investimento sbagliato, semmai indotto da un sistema truffaldino, della rabbia quotidiana verso lo strapotere di un operatore economico impersonale e indifferente a tutto. Anche in questo senso, il lavorio giornaliero, spesso oscuro, per rendere quanto più possibile efficiente il sistema, è un dono d’amore verso il prossimo, ed in particolare verso gli indifesi e coloro che sono in difficoltà.
Se mi è consentito, raccogliendo il Tuo invito, aggiungerei due categorie di persone alle Vostre riflessioni: in primo luogo, il personale dell’amministrazione giudiziaria, cancellieri, assistenti e simili. Quando l’utente entra in un Palazzo di Giustizia, spesso turbato o spaventato, è attraverso di loro, e non del magistrato o dell’avvocato, che ha il primo impatto con la struttura. La mole di lavoro, spesso ingestibile, può spingere a trattare con indifferenza, a volte con fastidio, chi si presenta, e rischia di rendere ancora più traumatica un’esperienza comunque difficile. Anche in questo ruolo, è possibile invece adoperarsi nel quotidiano per rendere testimonianza del proprio impegno sociale e della propria umanità. Infine i giornalisti ed in genere gli operatori dell’informazione: quante volte la necessità di un servizio a sensazione mette in secondo piano la sensibilità di chi è coinvolto, a qualsiasi titolo, in un processo ? Quante volte il processo mediatico, spesso sulla base di informazioni parziali quando non deviate, influenza e condiziona il processo reale ? Esiste il giornalista disposto a tratteggiare i profili umani di una vicenda, soffermandosi sulle problematicità di una situazione e invitando alla riflessione prima di esprimere facili giudizi ? Ecco un altro campo di impegno per il credente.
In conclusione, nel settore della giustizia, come in tutti i settori della vita, è possibile vivere la propria etica solo che si voglia guardare al di là del quotidiano ed alzare la fronte verso il cielo. Forse nella giustizia, dove si consumano sempre conflitti e spesso tragedie umane, se ne sente ancora più il bisogno che altrove.
Un caro saluto.
Ciro Riviezzo