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Castelgandolfo, 19 novembre 2005

1SESSIONE DI DIRITTO PRIVATO

Collegialità nella gestione d’impresa

Mario SpreaficoMario Spreafico, commercialista - Italia

Nell’ambito del diritto societario italiano, un argomento di estremo interesse, sia nella precedente normativa che  nella nuova versione adottata dal D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 e D. Lgs. 6 febbraio 2004 n. 37, è quello che riguarda il metodo collegiale con cui l’organo amministrativo, costituito come Consiglio d’Amministrazione, agisce.

Quatraro, nel testo “Le deliberazioni assembleari e consiliari” ([1]), identifica come prioritaria, tra le funzioni che la dottrina assegna all’organismo, quella che fa riferimento ad una “...amministrazione ponderata, unitaria e responsabile della società ...”. (Calandra Buonocore).


 Convengo con l’illustre Autore che la definizione sintetizzi in maniera sufficientemente esaustiva le funzioni che il Consiglio di amministrazione è chiamato ad assolvere, in ciò confortato anche dall’esperienza della mia diretta partecipazione a Consigli di amministrazione, cui sono chiamato per ragioni di ufficio: tuttavia, a mio parere, tale definizione, per quanto apparentemente completa, manca di anima, di tono.

Come noto il Consiglio di Amministrazione rappresenta il pool di persone preposte alla conduzione della società, sia per quanto attiene l’aspetto più esecutivo, (attuazione delle delibere di assemblea) sia quello più propositivo, (predisposizione e proposizione della politica societaria).

L’organismo collegiale assolve tali compiti non utilizzando la semplice somma di idee dei suoi membri, o le capacità funzionali proprie di ciascun consigliere, pur coordinati tra loro, dall’ufficio di Presidenza.

Se ben guidato ma soprattutto, se ben cosciente della propria funzione “collegialmente responsabile”, il Consiglio di Amministrazione realizza, proprio attraverso la sua tipica attività collegiale, quell’osmosi culturale e quella dialettica di pensieri e di opinioni che non solo favorisce la crescita e l’arricchimento reciproco dei propri membri ma meglio persegue, attraverso tale gestione ponderata, unitaria, responsabile, i fini istituzionali dell’Ente cui l’organismo è preposto.

Come si realizza, però, questo “salto di qualità” nell’attività collegiale, quel “qualcosa di nuovo” che qualifica il Consiglio di Amministrazione?  Come questi prende coscienza dell’importanza e del significato della collegialità nell’esercizio della propria attività, e le assegna un ruolo essenziale nel proprio agire?

A mio avviso, tutto deriva dalla capacità, all’interno del Consiglio, di attuare: 

  1. un “ascolto reciprocamente disponibile”, aperto cioè, ad accogliere, apprezzare, il pensiero altrui, anche se diverso dal proprio, a non prevaricare l’altro, a rispettarlo, recependo la diversità quale fonte di ricchezza di pensiero, e di orientarsi così, appunto collegialmente, al bene dell’ente gestito;
  2. la piena condivisione degli obiettivi prefissati, che non possono essere limitati al bene dell’Ente ( e, correlativamente, dei soci) ma anche alla metodologia con cui tale bene può essere perseguito, senza ledere gli interessi degli “stakeholders”, cioè di tutti i portatori di interessi che comunque gravitano attorno all’economia dell’Ente

Il Consiglio di Amministrazione, all’interno del quale si crea questo clima di ascolto e rispetto quasi familiare, ed in cui si sviluppa quella volontà comune di ben fare “collegialmente”, diventa veramente un ambito fraterno, portatore di una forza vitale, propulsiva per l’azienda e della comunità di riferimento e, nel rispetto dei ruoli, anche gerarchici, si arricchisce di una nuova spinta, quella dell’unità, che non significa certo sincretismo dei pensieri, ma  composizione organica e sinergica degli stessi.

Allora è con una ottica nuova che ciascun consigliere espleta il proprio mandato.

Ne ho avuto personale riprova durante la mia partecipazione, che dura tuttora, al Consiglio di Amministrazione di E di C spa.

Al momento della nomina dei vari membri, si poteva ragionevolmente temere qualche difficoltà operativa: dieci persone provenienti da ambiti, anche lavorativi, diversi, con diverse esperienze professionali e che mai avevano operato/lavorato assieme, non si presentavano certo come un gruppo di facile gestione. Tuttavia la tensione che ci accomunava, quella passione per l’Economia di Comunione, ed il mandato che avevamo ricevuto, quello di essere “operai” per l’edificazione del Polo, ci sembravano motivi e mezzi sufficienti per superare ogni possibile ostacolo che poteva manifestarsi almeno nei reciproci rapporti.

Ciascuno di noi sa per esperienza che spesso anche la condivisione di ideali può non essere sufficiente a superare le divergenze di vedute, nella vita pratica, nella quotidianità dell’agire,  anche solo per il “come” perseguire il “target” prefissato.

Avevamo però, un’arma vincente, quella di voler portare avanti l’obiettivo in forma collegiale, (unitaria, diremmo) dando spazio al pensiero ed anche agli interrogativi di ciascuno, raccolto e coordinato dall’ufficio di Presidenza.

Non sono mancati momenti difficili, in cui lo stesso Presidente ha dovuto ricordare sia la funzione cui ciascuno di noi era chiamato, sia la necessità che il tutto si svolgesse in maniera ordinata e con il più ampio rispetto non solo reciproco, del pensiero di ciascuno, ma anche della funzione che stavamo svolgendo e, soprattutto, della collegialità/unità fraterna, appunto, con cui dovevamo operare.

Ci ha aiutato molto il ricordarci, all’inizio di ogni seduta di consiglio, che cosa eravamo stati chiamati a fare, il perché ed il metodo – per dirlo laicamente, collegiale – che dovevamo adottare.

E’ stato, ed è tuttora, un’esperienza importante, ritengo per noi tutti, e per me, professionalmente illuminate ed arricchente.

 

Un pensiero, tuttavia, mi è spesso ritornato alla mente. Assisto sovente le piccole e medie imprese nelle problematiche connesse al così detto passaggio generazionale: l’esuberanza dei giovani e la riflessiva operatività dei “vecchi” devono essere composte ad unità.

Talvolta sono chiamato proprio dai gruppi familiari a far parte di un Consiglio di Amministrazione; ricordo uno, in particolare, in cui erano presenti due fratelli ed avevano deciso di darmi la carica di presidente del CdA: sembrava un intervento facile, quello di far emergere una “collegialità fraterna”, ed invece  così non è stato, anzi!

Questo mi ha ulteriormente rafforzato nella convinzione che la fraternità, cui si vuole improntare la gestione collegiale, non è (solo) quella che deriva dalla consanguineità ma, come dicevo, proprio dall’educazione quasi quotidiana all’“ascolto reciprocamente disponibile” ed alla piena “condivisione degli obiettivi prefissati”: tecnica di comportamento e prassi che, oggi, non possono essere contenute in una specifica norma legislativa, ma potrebbero essere suggeriti dalla norma come impegno, avente pari dignità – ed efficacia – della norma che spesso viene richiamata in merito alla “ buona fede “.

Oggi, nei Consigli di Amministrazione cui partecipo, cerco di suggerire, con le parole e le formule che ritengo più adatte alle singole circostanze, questa metodologia di lavoro comune.

La necessità, da una parte, del rispetto dei ruoli, delle gerarchie e, dall’altra, di dare spazio anche alle idee nuove, senza manifestazioni di autoritarismi, mettono a dura prova le parti: in questa composizione di ruoli e pensieri, ricordo sempre il richiamo ad un fine comune, ed alla necessità di una manifestazione “collegiale”ed unitaria delle decisioni assunte: unità che, poi,  “…nel suo versante sociale si chiama fraternità, categoria di portata non più solo cristiana, ma universale…”[2]

Lo sforzo, vi assicuro, vale la pena: ne esce un Consiglio di Amministrazione rafforzato, che poi dà anche fiducia al gruppo sociale che ad esso fa riferimento, creando ulteriore unità di forze per il bene comune.

 

 

 



[2] Vera Araùjo: “Relazione sociale e fraternità: paradosso o modello sostenibile?”, in Nuova Umanità XXVII novembre-dicembre 2005/6, n. 162 Atti del Convegno Social-One.

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