"La dignità dell'uomo: spunti biblici"
Mi è stato chiesto di parlarvi sulla dignità dell’uomo così come ne parla la Bibbia. Il tema è molto ampio, e per necessità mi devo limitare a qualche caso concreto.
Parto da un esempio che potrebbe sorprendere: il comandamento del riposo sabatico.
Per capire la novità rivoluzionaria di questo comandamento del Decalogo, bisogna ricordarsi come nelle società dell’antico Oriente esistevano due categorie di persone: coloro che lavoravano, e cioè gli schiavi e le donne; e coloro che hanno il diritto di riposare: gli uomini liberi. A questo riguardo è particolarmente suggestiva l’epopea di Atra-Khasis, un mitico racconto conosciuto in tutto l’antico Oriente nel primo millennio prima di Cristo. Il testo inizia: “Quando gli dèi lavoravano come gli uomini e penavano per la fatica… allora i sette grandi Anunnaki (grandi divinità) sta-bilirono che solo gli Igigu (divinità inferiori) avrebbero dovuto soffrire per il lavoro”.
Quindi divisione in due classi, come per gli umani. Soltanto che gli Igigu, dopo 40 an-ni di lavori, si sono “stufati” e fanno sciopero e vanno a protestare presso le divinità maggiori. E uno di queste ultime trova la soluzione: chiedere alla dea-madre di pla-smare l’uomo per imporre a costui la fatica del lavoro. E così viene creata l’umanità, gli schiavi del cosmo, incaricati di lavorare il mondo al posto delle divinità e permet-tere a queste di passare il tempo a riposare. Quindi il riposo è solo per gli dèi. Se poi una classe di uomini riesce ad impossessarsi del diritto di riposare a scapito di altri uomini, è perché tale classe è simile agli dèi. Questo mito si rivela essere una ideolo-gia della classe dominante per sfruttare le classi deboli ? Può essere. Importa vedere su questo sfondo l’originalità del comandamento del riposo sabatico:
“Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava…. Perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente…” (Dt 5, 13ss).
Si vede subito l’originalità: Tutti gli uomini devono lavorare e tutti hanno il diritto a riposarsi; è presente un seme innovatore per la società, un seme che tende all’uguaglianza di tutti. Significativo infatti che il testo non a caso insiste sul fatto che anche lo schiavo ha diritto al riposo così come l’uomo libero. Il Decalogo del Deute-ronomio dà la motivazione seguente: “Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso” (Dt 5,15). Israele quindi viene rimandato alla propria esperienza fatto nel pas-sato: era un popolo di schiavi e fu liberato dalla schiavitù da Dio. Di quest’esperienza Israele non può non tenerne conto nella sua esistenza di popolo libero. Scrive Lo-hfink (op. cit. , p.218): “Chi ha fatto l’amarissima esperienza dello sfruttamento, e quindi è riuscito a passare nel gruppo dei fortunati che godono del dono del riposo, dovrebbero conoscere la differenza, dovrebbero portare in sé l’impulso a cambiare; costui non può sopportare l’antica distinzione tra chi lavora e chi riposa e si adope-rerà perché ad ogni uomo sia assicurato il lavoro, sì, ma anche il riposo”.
La motivazione del riposo del sabato che si legge nel Decalogo del libro dell’Esodo è ancora più suggestiva: elimina anche la discriminazione tra una divinità che riposa e fa lavorare gli uomini:
“Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno” (Es 20,11). Anche JHWH dunque lavora e riposa, “e se fa l’uomo a sua immagine, ciò significa che anche l’uomo, come il proprio Dio, è un essere destinato a lavorare e a riposare” (Lohfink, op.cit., p.221). Come detto, è in germe una rivoluzione sociale che riguarda proprio la dignità di ogni essere uma-no; viene contestata una divisione tra chi ha il diritto al riposo, e chi invece deve la-vorare. Tutti devono lavorare e tutti possono riposare: lavoro e riposo non possono costituire un fattore di ineguaglianza.
Il testo del Decalogo appena menzionato che equipara l’attività dell’uomo con quel-la di Dio proviene dalla tradizione sacerdotale, piuttosto recente e rimanda all’attività divina della creazione del primo capitolo del Genesi che è appunto della tradizione sacerdotale. Ma proprio questa tradizione posta all’inizio della Bibbia mette in forte luce la dignità dell’uomo:
“E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1,27). Creato per ultimo e quindi al vertice della creazione, l’uomo è posto in una relazione unica con Dio. E’ vero che l’affermazione di una affinità tra uomo e divinità si trova espressa anche in antiche tradizioni orientali. Ma nella cultura me-sopotamica, la rassomiglianza dell’uomo con esseri divini significa che l’uomo è stato reso capace di fare nel mondo creato il lavoro che dovrebbero fare le divinità ! E quindi l’uomo è creato simile agli dèi affinché faccia nel mondo il lavoro che tocche-rebbe ai dèi che preferiscono usare del diritto del far-niente!
Quando la tradizione sacerdotale riprende la tematica dell’uomo ad immagine di Di-o, il significato cambia radicalmente visto che nella sua teologia Dio lavora e riposa come l’uomo. Come allora intendere l’affermazione che l’uomo è creato ad immagi-ne di Dio ? Anche se non sbagliate, le considerazioni “occidentali” sul fatto che l’uomo è immagine di Dio perché è un essere intelligente, o libero o cosciente, non coincidono col pensiero biblico. Indica piuttosto che l’uomo, in quanto immagine di Dio, ne è il rappresentante sulla terra; o forse ancora meglio l’autore voleva dire qualche cosa che riguarda la sua relazione con Dio: l’uomo è creato come un Tu che sta di fronte a Dio, un essere in dialogo con Dio.
Dunque Dio crea l’uomo a sua immagine non per trattarlo da schiavo che deve lavo-rare al suo posto, ma come un Tu col quale Egli può entrare in dialogo, stabile una alleanza.
L’essere immagine di Dio esprime la dignità fondamentale di ogni uomo al di sopra e prima di qualsiasi distinzione di razza, di posto nella scala sociale o di religione.
Come l’uomo deve attuare la sua superiorità sul creato viene detto subito:
“Dio disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, domi-nate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Gn 1,28).
Se nel pensiero greco-ellenistico l’uomo può essere visto come una parte inserita nel Tutto, un elemento che ha il suo posto nell’armonia dell’insieme e quindi è chiamato a vivere nel ritmo del cosmo; ben diverso la visione biblica nella quale l’uomo non è considerato come parte sottomesso al Tutto cosmico, bensì ha ricevuto il creato in dono da Dio, e ha il compito di sottometterlo. Ma cosa significa “dominare” ? Signi-fica che l’uomo ha il diritto assoluto di disporre del mondo materiale: non di rado è l’accusa rivolta al nostro testo. Senza dubbio l’attività economica, scientifica e lavo-rativa è voluta da Dio; il lavoro è costitutivo dell’essere-uomo (non una punizione dovuta al peccato, come conferma anche il secondo racconto della creazione: JHWH pone l’uomo nel giardino (Eden) “per coltivarlo e custodirlo”.
E’ vero che la tradizione sacerdotale utilizza due verbi molto forti e cioè kabash e rādâ tradotti abitualmente con soggiogare, sottomettere, calpestare; e dominare, comandare. Ma se interpretiamo questi verbi rimanendo fedeli al contesto, non siamo affatto dinanzi ad una istigazione allo sfruttamento selvaggio. Non è così che l’uomo deve manifestare la sua dignità di re del creato.
Kabash letteralmente; significa “mettere i piedi su qualcosa”; e nel nostro contesto che parla della diffusione dell’umanità sulla terra, il verbo non significa calpestare, ma “prendere possesso”, e cioè occupare la terra poco a poco a misura che si esten-de l’abitato dell’umanità.
L’altro verbo rādâ ha il senso fondamentale di “andare in giro con altri”, quindi con-tiene l’idea di accompagnare, di guidare, in particolare di pascolare, frequente in un mondo dove la pastorizia era dominante e lo stesso re era chiamato pastore. Quindi all’uomo viene affidato il compito di pastore, una funzione di guida, dunque di pace, nei confronti degli animali, una funzione purtroppo sciupata dalla violenza entrata nel mondo col peccato; nasce invece l’ostilità tra uomo e animali.
Accusare il nostro testi di incitare allo sfruttamento selvaggio dei beni terreni è di-menticare che per questo testo l’uomo come partner di Dio, è solo il suo ammini-stratore e non il padrone assoluto del mondo. Ma quando l’uomo dimentica Dio, il Sovrano del creato al quale anche l’uomo è sottomesso, allora il “dominare” sulla terra finisce per diventare lo sfruttamento inconsiderato da parte di una umanità che si crede il padrone assoluto del creato.
Il racconto della creazione nel Gn 1, presenta un altro passo importante ri-guardo alla dignità dell’uomo creato ad immagine di Dio. Si legge in Gn 1,27:
“a immagine di Dio lo creò, mascio e femmina li creò”.
A prima vista, l’affermazione che Dio creò l’essere umano maschio e femmina po-trebbe apparire lapalissiana, è tuttavia un testo fondamentale sull’essere umano che in tutte le epoche poteva essere interpretato male, sotto l’influenza di una cultura maschilista. E lo stesso Paolo non sfugge a ciò, come si vede nel suo modo di reagire all’atteggiamento delle donne cristiane di mentalità ellenista che andavano senza velo nelle riunioni cristiane. Scrive l’apostolo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, es-semdo immagine e gloria di Dio, mentre la donna è gloria dell’uomo” (1 Cor 11,2ss). E’ vero che poi egli si coregge: “Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna”. Insomma l’uguaglianza in dignità tra il maschio e la donna faceva difficoltà ad affermarsi, nonostante che l’apostolo, altrove afferma esplicita-mente: “In Cristo…non c’è maschio e femmina: tutti voi siete una persona in Cristo Gesù” (Gal 3,28), e dove viene ripresa letteralmente l’espressione di Gn 1,27: “ma-schio e femmina” (e non “uomo né donna”). Il testo certo non vuole negare la realtà sessuata dell’umanità, ma affermare il superamento della relazione conflittuale, e quindi il compimento dell’intento originario del Creatore sull’umanità. “In Cristo” in-fatti, ognuno/ognuna è posto in relazione di fratellanza, perché ognuno/ognuna è posto nella dignità suprema di figli di Dio. L’essere “fratelli” in senso cristiano non banalizza il rapporto uomo-donna, ma permette di vivere la distinzione nell’uguaglianza, cioè senza quel inquinamento che fa vedere la donna come ogget-to di idolatria o di subordinazione. Tolto quindi l’ostacolo inquinante, i due possono vivere la vocazione al godimento (simboleggiata dal giardino Eden, nel secondo rac-conto della creazione), cioè vivere l’estasi (estasi nel senso di uscire da sé) d’amore l’uno verso l’altra, vocazione iscritta da Dio nell’essere umano.
Il testo della lettera ai Galati condensa una novità che emerge in tutta la teologia di Paolo e che l’esegeta svizzero Marguerat esprime in questi termini: “Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell’umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l’aveva affermato con altrettanta forza. Che l’essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teolo-gia di Paolo”.
Ma torniamo al testo del Genesi, e specificamente al secondo racconto della crea-zione, della tradizione jahvista, più antica di quella sacerdotale, e che sembra con-traddire la verità di quest’ultima: non afferma infatti, nel linguaggio mitico che lo ca-ratterizza, che la donna nasce dalla costola dell’uomo, e quindi suppone l’anteriorità e quindi la superiorità dell’uomo sulla donna ? E’ per esempio l’interpretazione fatta dall’autore della prima lettera a Timoteo: “La donna imparì in silenzio in piena sottomissione…Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva” (1 Tm 2,11s). Ma il nostro autore ha fatto una esegesi corretta dal testo del Genesi o si è lasciato prendere dalla mentalità predominante del suo tempo anche nell’ambito giudaico ? Guardiamo con attenzione al testo di Gn 2 della tradizione jahvista.
All’inizio del racconto l’autore presenta Dio che plasma l’adamo e gli comunica l’alito di vita (Gn 2,4b-7); viene posto nell’Eden, luogo di abbondanza e anche luogo da col-tivare.
Con “Non è bene che l’uomo sia solo; gli farò un aiuto, come uno di fronte a lui” ini-zia una seconda sezione del racconto. La solitudine è segno di mancanza; e Dio stes-so se ne accorge e presenta all’adamo non la donna ma gli animali: essi non sono capaci di colmare il vuoto. La scena non è fuori posto; viene sottolineato, per con-trasto, la diversità di relazione tra uomo-donna rispetto a tutto il resto del creato. L’umanità ha coscienza di superare il regno dell’animalità.
Domanda: visto che Dio si era accorto della solitudine dell’adamo, perché non lo colma col Suo amore ? Il testo vuole orientare ad una importante verità: l’uomo è realizzato soltanto nella reciprocità, come comunione; e la realtà comunionale dell’essere umano appartiene al mistero divino, proviene dal profondo di Dio stesso. E dunque non è l’adamo che sente la mancanza (non ne sta all’origine), ma Dio in persona constata l’incompiutezza dell’adamo. A modo suo questa tradizione jahvista dice che il rapporto uomo-donna, l’esistenza della sessualità (da non limitare alla genialità o alla procreazione) è la soluzione voluta da Dio per dare compimento all’essere umano. L’umanità sessuata ha quindi il suo fondamento ultimo in Dio; e il mistero dell’incontro tra l’uomo e la donna deve essere salvaguardato sia contro la tendenza del sesso-tabù che colpevolizza, sia dal sesso liberato che banalizza. Ne va della dignità dell’essere umano.
Proseguiamo la lettura del testo che dice che Dio vuole fare all’adamo un aiuto: sarà la donna. Di nuovo bisogna stare attenti a non interpretare la parola tradotta con “a-iuto” alla luce della nostra cultura. La parola “aiuto” (‘ēzer) è da capire nel contesto dell’alleanza dove si parla spesso di JHWH come “mio Aiuto”, Colui che viene in soc-corso d’Israele in pericolo. Quindi il termine ebraico tradotto con “aiuto” non con-tiene nessuna idea di inferiorità; non è la domestica; la donna non è affatto vista come il complemento dell’uomo; meglio tradurre con “partner” o “alleato”. Il par-tner sta di fronte all’altro in un reciproco rapporto d’amore, di uguaglianza. Sia l’uomo sia la donna devono essere se stessi (e non un semplice complemento) come condizione per poter essere l’uno per l’altra quel aiuto indispensabile che li tira fuori dalla solitudine, e cioè che li pone nella piena consapevolezza della loro identità di uomo e di donna. La storia del serpente chiarirà in seguito.
Per il momento Dio, per costruire la donna, fa scendere un tardēma, un sonno pro-fondo, un torpore sull’adamo. Si tratta di un sonno non naturale, normalmente pro-vocato da Dio. Dio dunque lavora su di un’umanità nel sonno profondo, e da questo sonno esce l’essere umano finalmente realizzato come comunione di uomo-donna.
E nel sonno Dio tira la donna dalla costola o dal fianco dell’adamo: ma ciò non signi-fica la priorità dell’uomo sulla donna e quindi l’inferiorità di quest’ultima ? Per nulla ! Importa notare che nel testo originale, finora (e l’ho reso parlando sempre dell’adamo) si parla dell’adamo con l’articolo: non si tratta affatto del signore Ada-mo di cognome, ma dell’”umano”, del “terroso” (visto che il termine deriva da ada-mah = terra, fango. Quindi l’adamo rappresenta (nel linguaggio mitico del racconto) l’umanità ancora indifferenziata. Di conseguenza quando Dio crea la donna, crea nello stesso tempo anche il maschio; quest’ultimo non ha mai esistito senza la don-na. Quindi niente superiorità del maschio sulla donna!
Poi Dio in persona conduce la donna all’uomo (Gn 2,22) e invita l’uomo a dare il no-me alla donna, ma non più come per gli animali in segno di dominazione, ma a rico-noscerla come sua partner. E riconoscendo la donna, anche l’uomo-maschio scopre se stesso (e viceversa). Il loro incontro di comunione corona l’opera creatrice di Dio.
A questo punto diventa suggestivo la storia del serpente: egli riesce a sedurre la donna. Purtroppo la tradizione giudaica e cristiana si è servita di questa scena per colpevolizzare la donna dell’entrata del peccato nel mondo ! Ma la vera domanda che pone il testo è: dov’è l’uomo-maschio quando si svolge il dialogo tra il serpente e la donna ? La donna si lascia sedurre perché è sola; il maschio è assente, non svol-ge la sua funzione di “aiuto”, di alleato nel rapporto con la donna. Il peccato è entra-to nell’umanità a causa della rottura di alleanza tra l’uomo e la donna. Quanto fon-damentale questa alleanza nella storia e destino dell’umanità !